C'era una volta in Cina..., Letteratura, Recensioni

Daughter of the Moon Goddess, tra paesaggi suggestivi e – ahimè – poco altro


Sgomberiamo subito il campo da ogni possibile dubbio: se non ho esitato un attimo, una volta messa a conoscenza dell’esistenza di Daughter of the Moon Goddess (romanzo d’esordio, d’impronta xianxia, della scrittrice di Hong Kong Sue Lynn Tan), prima di procedere all’acquisto dello stesso, è stato soprattutto perché stregata dalla bellezza delle due illustrazioni di copertina realizzate da Kuri Huang e da Jason Chuang… e, beh, anche perché convinta dalle lodi in cui avevo visto sperticarsi Shelley Parker-Chan, madre del mio amatissimo She Who Became The Sun. Adesso, a lettura ultimata, mi sento di affermare in totale tranquillità che, a fronte dall’intonsa validità della prima motivazione (dovreste vederlo, il figurone che fa il tomo della Tan nel mio scaffale dedicato al fantasy orientale!), per i prossimi acquisti letterari farò meglio a evitare di prendere in considerazione i consigli delle amiche delle autrici dei libri su cui ho messo gli occhi – con tutto il rispetto per le valutazioni, molto probabilmente sincere, della Parker-Chan.
Intendo sottintendere, con questo preambolo, che l’opera che mi accingo a recensire sia del tutto da buttare? No, certamente non del tutto… e, infatti, prima di provare ad approfondirne gli aspetti più deboli, vorrei spendere qualche parola in merito a quelli che, tirando le somme, trovo abbiano comunque dato un senso alla mia decisione di privilegiare le ambientazioni surreali e le figure mitologiche qui tratteggiate rispetto al resto della moltitudine di Young Adult (perché di uno Young Adult, indubbiamente, stiamo parlando, checché ne dicano i fans già pronti a inneggiare a un improbabile “crossover fra stile NA e tematiche YA”—) in uscita nello stesso periodo.

Ma andiamo con ordine e…


… facciamo la conoscenza, innanzitutto, della giovane (almeno in base ai parametri degli Immortali) Xingyin, figlia segreta di quella Dea della Luna che, secondo la leggenda, sarebbe divenuta tale dopo essersi appropriata dell’elisir della vita eterna destinato non a lei, bensì all’eroico marito: come punizione per il crimine commesso, ella sarebbe stata condannata dall’Imperatore Celeste a spendere il resto della sua esistenza, ormai senza fine, su una Luna che le facesse, al tempo stesso, da cella e da regno.
Xingyin, ad ogni modo, non è mai stata messa al corrente di tutto questo. O, perlomeno, non fino al giorno in cui proprio un suo gesto incauto porta i Cieli a sospettare dell’esistenza di un qualcosa, o di un qualcuno, che la Dea avrebbe loro tenuto nascosto. La ragazza si ritrova costretta, di conseguenza, a separarsi dall’amatissima madre e a fuggire via, verso quell’Impero Celeste i cui abitanti pure potrebbero essere tentati di considerarla una traditrice o una spia.
Liwei, però, il Principe Ereditario, sembra un tipo molto diverso dagli altri – a lei, in un certo senso, sembra tenere sul serio, spesso in barba a quanto suggeritogli dal resto della corte. Così come, nei suoi confronti, sembrano presto iniziare a nutrire una sincera stima, un sincero affetto, anche i soldati (incluso il misterioso Generale Wenzhi) fianco a fianco dei quali Xingyin, dopo aver maturato una più completa consapevolezza dei propri poteri, accetterà di combattere in qualità di Primo Arciere dell’Esercito Celeste.
Il suo obiettivo è, neanche a dirlo, quello di liberare la madre dalla prigionia a cui è stata costretta. E forse, se riuscirà a distinguersi in battaglia, potrà esprimere questo desiderio allo stesso Imperatore…


… e queste sono le premesse di una storia che, a onor del vero, trovo esordisca sotto – tanto per rimanere in tema – la più luminosa delle stelle.
Le immagini che la scrittura elegante, sobriamente lirica (raro, se non rarissimo, è assistere a un periodare ampolloso o a eccessi nel ricorso ad arcaismi di sorta) di Sue Lynn Tan riesce a evocare nel corso dei primi capitoli del romanzo, infatti, sorprendono per le loro forme surreali, per la capacità che possiedono di richiamare quelle melodie ovattate e quelle percezioni rarefatte che quasi solo i sogni sono in grado di trasmettere: i paesaggi, i racconti e le abitudini quotidiane caratterizzanti l’infanzia che Xingyin trascorre sulla Luna sanno, in effetti, proprio dell’inscalfibile ciclicità del mito che ci aspetterebbe d’individuare nelle vicende di una Dea, del romanticismo malinconico che la letteratura, da tempi immemori, ha voluto associare alla luce della luna. Ambientazioni e atmosfere, insomma, funzionano eccome, sia nell’assecondare il corretto sviluppo delle avventure fantastiche di Xingyin sia nel permettere al lettore d’immergervisi… con lo stupore di chi si ritrova ad assistere a sempre nuovi prodigi, sì, ma anche con la serenità di chi, fra quelle valli e quelle nuvole, si sente perfettamente a proprio agio.
E qui, purtroppo, almeno per quanto mi riguarda, si esauriscono gli aspetti positivi. Si esauriscono, insomma, non appena tocca spostare lo sguardo dall’incantevole cornice ai soggetti ritratti nel quadro – precisamente ai soggetti, esatto, mi riferisco soprattutto a quelle figurine di cartapesta che rispondono alla definizione di “personaggi”. Intendiamoci, non è che altri, importantissimi ambiti narrativi siano esenti da problemi… penso, ad esempio, al fluire fastidiosamente innaturale di dialoghi e monologhi che, quando esenti dal compito di fornire il più alto numero d’informazioni nel più ristretto (e artefatto, considerato che i soggetti coinvolti non hanno quasi mai ragione d’intrattenersi in conversazioni o in flussi di pensiero atti a esporre/ricapitolare concetti che ai suddetti dovrebbero essere già ben noti) spazio possibile, non appaiono scanditi da altro che da lunghe serie di frasi presumibilmente a effetto o da idee complesse sintetizzate in imbarazzanti banalità; tuttavia, nell’ambito di un’opera di stampo dichiaratamente fiabesco come questa, simili difetti potrebbero anche essere giustificati dall’ipotizzabile intenzione, da parte dell’autrice, di adottare un linguaggio didascalico che, semplicemente, abbia compiuto la scelta sbagliata di fronte all’inevitabile bivio fra universalità e retorica. Spiegazione tirata un po’ per i capelli e dal valore molto relativo, me ne rendo conto, e che, comunque, non trova invece alcuno spazio nel tentativo di dare un senso alla clamorosa inconsistenza, come dicevo, non solo del cast nel suo complesso, ma dei tre protagonisti in particolare.
Per come la vedo io, non è tanto il triangolo amoroso in sé a rappresentare la pietra dello scandalo: sebbene si tratti di uno dei tropi maggiormente esposti al rischio di scivoloni, non si può ignorare l’esistenza, anche in ambito YA, di autrici (un nome per tutti potrebbe essere quello di Suzanne Collins) dimostratesi all’altezza dell’ingrato compito di gestirlo in maniera funzionale, e non soffocante, rispetto alla trama. Compito, questo, che quindi, in linea teorica, anche la Tan avrebbe potuto portare a termine con successo, se solo non si fosse arenata su due figure maschili che, a dispetto delle nettissime differenze che ne caratterizzano i rispettivi retroterra familiari e culturali, appaiono l’uno la fotocopia dell’altro – nell’eloquenza misurata, negli irrazionali scatti di gelosia, nel corteggiamento educato ma un po’ egoista di cui rendono oggetto Xingyin. Non ci sono dei veri scarti fra l’uno e l’altro, non c’è una particolarità che aiuti a distinguerli, non c’è una reale motivazione per cui si debba propendere per il primo a scapito del secondo o viceversa: Liwei e Wenzhi sono, semplicemente, lo stesso stereotipo ambulante che, per offrire un perché al proprio sdoppiamento, non trova nulla di meglio del nascondersi dietro all’usuratissimo motivo del “Bravo Ragazzo vs. Cattivo Ragazzo” che, però, alla prova dei fatti, si rivela radicato solo nel ruolo, non certo nella personalità o negli atteggiamenti, dei due ragazzi. E, ovviamente, dell’eroina di turno neanche a parlarne, visto e considerato che ci troviamo davanti a uno dei peggiori casi di eterna bambina, dotata dei soliti poteri superiori alla norma e del solito fascino di cui ella stessa è inconsapevole, più coraggiosa di chiunque altro e più adatta di chiunque altro a rovesciare un sistema d’ingiustizie millenario, di cui io abbia memoria… e, d’accordo, vanno bene le protagoniste YA strutturate in modo che ciascuna lettrice possa rintracciare in esse una versione ideale di sé, ma a tutto dovrebbe pur esistere un limite.
In definitiva, sembra che Sue Lynn Tan ce la metta proprio tutta per privare chiunque si approcci al suo libro di qualsiasi speranza di entrare in risonanza con il cuore di creature esteticamente splendide, certo, inscritte in scenari lussureggianti dal sapore onirico, ma emotivamente povere, prevedibili, uguali a mille altre che le hanno precedute…



… con mio grande rammarico, oltretutto.
Perché, sì, mi è dispiaciuto moltissimo scrivere una recensione di questo tipo, in luogo di quella entusiasta che ero certa avrei sfornato a lettura conclusa. Ma, tant’è, immagino fosse solo una questione di tempo prima che mi capitasse di pubblicare una qualche stroncatura (o quasi?) anche qui.
A, spero!, occasioni letterarie migliori~ (ma sicuramente non al sequel di questo volume… che, peraltro, a voler aggiungere un’ultima informazione, ritengo sia già sufficientemente autoconclusivo—)



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