C'era una volta in Cina..., Letteratura, Recensioni

SHE WHO BECAME THE SUN: ruoli e identità di genere secondo Shelley Parker-Chan


La Canzone di Achille di Madeline Miller, la trilogia de La Guerra dei Papaveri di R. F. Kuang, Il Priorato dell’Albero delle Arance di Samantha Shannon… e, ovviamente e immancabilmente, Mulan: sono numerose le opere a cui sia la Tor Books, in base a una linea editoriale tanto precisa quanto parzialmente ingannevole, sia, in un secondo momento, gli stessi lettori hanno voluto associare SHE WHO BECAME THE SUN, primo volume della dilogia promessaci dalla scrittrice Shelley Parker-Chan… ma, per quel che mi riguarda, nonostante capisca il perché di quasi tutte le associazioni summenzionate, l’unico nome che ha davvero iniziato a risuonare nella mia testa, già a poche pagine dall’inizio del romanzo in oggetto, è stato quello dello shoujo manga Legend of Basara di Yumi Tamura.
L’incipit, in fondo, è piuttosto simile:


Una coppia di fratelli appare, dinanzi al fato, divisa da mura invalicabili. Se, infatti, il bambino viene vezzeggiato da promesse di un futuro glorioso, la bambina sembra invece destinata, anche in quanto “femmina”, a eclissarsi silenziosamente lungo il fluire della Storia.
Quando, però, il primo dei due perde inaspettatamente la vita, alla seconda non resta altro da fare che raccoglierne il testimone, assumendone l’identità e, perché no, anche le sorti radiose…


Certo, qui non ci troviamo in un Giappone post-apocalittico, bensì nella Cina del XIV secolo, alla vigilia del crollo del dominio mongolo sul territorio. E la giovane di cui seguiamo le vicende non è Sarasa, sorella gemella di quel Tatara avviatosi a guidare la ribellione contro il Re Rosso, bensì una sventurata senza nome che, nel prendere il posto del fratello Zhu Chongba, compie solo il primo dei passi che la porteranno a diventare il primo Imperatore della dinastia Ming.
È proprio in questi termini, dopotutto, che l’intreccio tessuto dalla Parker-Chan sarebbe facilmente sintetizzabile: nella veste di un fantasy storico propostosi di ripercorrere la fine del dominio degli Yuan e la conseguente nascita di quello che diverrà poi noto come il regno di Hongwu, ponendo l’accento sul profilo bellico del passaggio di potere in questione (e sì, accidenti, hai voglia che almeno una delle battaglie campali descritte nel libro ricordi da vicino l’indimenticabile scontro, sui monti innevati, fra gli unni e l’esercito di reclute di Mulan) e limitando – proprio come accade in Basara! – le suggestioni di stampo più genuinamente fantastico ad alcune apparizioni di spettri e all’indiscutibile concretezza di certi interventi diretti del Cielo.

E, tuttavia, a indicare quello che può essere definito non solo come il tema principale, il cuore “filosofico” dell’intera opera, ma anche come l’elemento più utile alla stessa nella ricerca di una personalità differente da quella propria di molti dei titoli altisonanti citati poc’anzi, giunge la scelta di affiancare al cammino di Zhu Chongba quello di un altro personaggio, al tempo stesso affine per natura e opposto per prospettive alla nostra protagonista, ovvero il generale Ouyang. Così, mentre osserviamo una ragazzina indossare i panni del fratello morto, trascorrere l’adolescenza in un monastero e, infine, scegliere il movimento ribelle dei Turbanti Rossi come strada lungo cui perseguire le proprie ambizioni, facciamo la conoscenza anche di un giovane che, dopo aver preferito il dolore e l’umiliazione della castrazione a una morte che gli avrebbe impedito di vendicare lo sterminio della sua famiglia, si ritrova a ricoprire il ruolo di fidato (nonché temutissimo, a dispetto del disprezzo comunque riservatogli a causa della sua condizione di eunuco) braccio destro di Esen, figlio del principe mongolo che proprio di quello sterminio era stato artefice – ed ecco emergere qui, tramite il parallelismo fra queste figure parimenti straziate, l’asse portante di un racconto prefissatosi di dire qualcosa in più, a proposito della natura umana, rispetto a quanto evincibile da una mera, giusto un po’ fantasiosa riscrittura di un evento storico. Appurato come il ritratto della prima delle due risulti contraddistinto soprattutto dall’ambizione, a sua volta legata alla paura che un qualsiasi cedimento lungo la strada verso la grandezza comporti una ricaduta nel nulla, e quello della seconda dalla sete di vendetta e dalla rivendicazione di un orgoglio di figlio, di fratello e di uomo atrocemente calpestato, a saltare subito all’occhio è il modo in cui a orchestrare, di rado ad agevolare e spessissimo a ostacolare i piani di entrambe intervenga sempre il medesimo, comune fattore: la discrepanza fra ciò che i due avversari sanno e vorrebbero dimostrare al mondo di essere, da un lato, e la crudeltà con cui la società irride o addirittura nega le loro identità, ritenendole non conformi o ai corpi stessi che le ospitano o ai sentimenti provati e ai ruoli ricoperti da quest’ultimi, dall’altro.
Sono dunque gli stereotipi e l’identità di genere, appunto, la pressione esercitata dalla collettività e dalle norme vigenti affinché ogni individuo modelli la propria esistenza, i propri desideri e la propria felicità sulle caratteristiche fisiche con cui è nato o con cui è stato marchiato, sulla presunta corrispondenza fra quest’ultime e determinati valori morali, a rappresentare lo snodo preminente dell’intreccio e a tenere costantemente sulla corda tutti quei personaggi incapaci di distendere le gambe negli angusti angoli di mondo loro riservati. Scopriamo così perché Zhu Chongba consideri il proprio corpo di donna come una condanna a morte in piena regola, come un peso di cui liberarsi e di cui dimenticare d’essere mai stata in possesso, ma anche perché l’incapacità di sopire del tutto questa natura femminile si converta, all’occorrenza e non senza un guizzo d’ironia, in una prodigiosa ancora di salvezza; e scopriamo pure, nel frattempo, il motivo per cui Ouyang, considerato un maschio a metà, tanto bello da far invidia alle più ambite delle cortigiane, non possa mai essere nulla di diverso da un uomo, un uomo fiero dei doveri ereditati in quanto tale e ad essi ciecamente ligio, sebbene consapevole di come ciò non faccia che allontanarlo da quell’altra parte di lui che spinge il prossimo a svalutarne la virilità – la parte, cioè, perdutamente innamorata di un altro uomo, Esen, perfetto e irraggiungibile e tanto adorato quanto odiato per la sua insensibilità all’essere maschile di Ouyang. E ancora, volendo spaziare nel campo dei profili “secondari” (virgolette dovute, data l’importanza narrativa rivestita dalle personalità in esame), si potrebbe sottolineare come la recalcitrante rassegnazione di Ma Xiuying al futuro di sposa e madre impostole dalla cultura del tempo costituisca sia la causa dell’insoddisfazione che ne brucerà anni di giovinezza sia, d’altra parte, quella sorta di minaccia emotiva all’origine del “sì” rivolto a Zhu Chongba che le consegnerà un avvenire da Imperatrice… o come il rifiuto di Lord Wang (fratellastro di Esen e – per la cronaca – mio pupillo~) ad adeguarsi allo stile di vita guerriero e machista preteso dal padre gli garantirà, certo, sberleffi e continui conflitti familiari, ma anche quel rancore a stento soppresso e quella tendenza a leggere le mosse altrui, prima di gettarsi a capofitto nella mischia, da cui avrà origine la sua rivalsa.
A trovare il bandolo di questa matassa di apparenti (?) contraddizioni, in compenso, entra in scena un altro attore ancora: il Fato. È tale immanente e, perlomeno nella dimensione ricostruita dalla Parker-Chan, tangibilissima forza universale (capita, addirittura, che il suo volere si materializzi sulla terra con le sembianze di un bambino!), difatti, a stabilire se il singolo debba prestare ascolto a un animo femminile o a uno maschile o a entrambi e, non ultimo, in che misura questi possa essere donna o uomo o entrambi a modo proprio, senza prima implorare il permesso del sistema culturale di riferimento. Disegni accurati, quelli tratteggiati dal destino, a cui, probabilmente, ciascuno dei personaggi in gioco si convincerà (con sollievo o con orrore), ad un certo punto del viaggio, di star remando contro, senza rendersi conto di come, in realtà, ogni esitazione e ogni dubbio nutrito non abbia fatto altro che favorirne il fluire, in barba a quanto ciò possa essere costato in termini di compromessi etici e di perdite umane impossibili da lasciarsi alle spalle.

Doveroso, però, una volta giunti qui, porsi una domanda: è lo stile di scrittura dell’autrice in grado di dar conto in maniera appropriata e sufficientemente coinvolgente del groviglio di tematiche e punti di vista di cui si è parlato finora?
La risposta, a mio avviso, è sicuramente sì per quel che riguarda la delicatezza, la complessità e l’importanza dei quesiti messi in tavola, tutti magistralmente incarnati in figure vive, autentiche, per le quali il lettore, se restìo ad accettare di provare empatia, ritengo non possa tuttavia fare a meno di avvertire una profonda comprensione. È, invece, in relazione alla capacità della scrittrice di tenersi alla larga da “pantani” di sorta che la risposta potrebbe farsi un po’ meno entusiasta, alla luce dell’inspiegabile ed estenuante rallentamento di ritmo a cui si assiste nella parte centrale dell’opera – teatro di una specie di tedioso reportage militare che nulla fa per eguagliare i livelli d’intensità e tensione agilmente raggiunti, al contrario, dai molteplici momenti intimisti che la precedono e seguono. Ma questo è uno dei pochi, davvero pochissimi difetti che mi sentirei d’imputare a un romanzo…



… che, in definitiva, non esiterei un istante a consigliare praticamente a chiunque.
Sì, proprio a chiunque, compresi coloro che, magari, sebbene intrigati dalle promesse della Parker-Chan o dall’invitante confezione estetica delle varie edizioni in lingua inglese (e a breve, immagino, anche di quella italiana, recentemente annunciata dalla Oscar Vault), non se la sentano di avventurarsi in un ciclo narrativo non ancora giunto a conclusione: se è vero, infatti, che le ultime pagine del volume lasciano spazio ad una notevole dose di curiosità in merito all’evoluzione di alcuni personaggi in particolare, è altrettanto vero che il finale non solo riesce a portare a soddisfacente compimento molti dei tragitti intrapresi, ma anche ad alludere con garbata astuzia agli esiti dei pochi non ancora percorsi fino in fondo. Nulla da temere, dunque, per chi fosse alla ricerca di un titolo perlopiù autoconclusivo.
Ed è su quest’ultima… nota d’incoraggiamento?, dunque, che mi congedo, affidandovi a uno dei passaggi a parer mio più struggenti (ma, attenzione, leggermente spoilerosi!) dell’intera opera…



“Dark emotions sat unnaturally on Esen’s classically smooth features. The sight made Ouyang feel that he had broken something beautiful and perfect.
Chaghan’s death had been unavoidable: it had been written into the fate of the world from the moment Chaghan had killed Ouyang’s family. In that respect, killing Chaghan hadn’t been a sin.
But breaking Esen felt like one.”

(Ouyang, capitolo 15)




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