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Sha Po Lang, Zhen Hun, Tian Ya Ke: politica, orrore e folklore nei danmei di PRIEST


Se si guarda al successo riscosso (tanto all’interno quanto all’esterno dei confini della Cina), nel corso degli ultimi tre o quattro anni, da almeno una decina di “opere di punta” dell’universo dei danmei, è facile constatare come quest’ultimo stia attualmente vivendo una sorta di Età dell’Oro, caratterizzata da un continuo e inarrestabile germogliare di nuovi progetti, nuovi adattamenti di titoli già noti, nuovi sbarchi presso terre precedentemente ignare dell’esistenza di tale genere letterario.
Frastornante esplosione di popolarità, questa, di cui sarebbe quantomeno ingenuo non attribuire buona parte del merito alla scrittrice Mòxiāng Tóngxiù (sua la penna che ha dato vita agli ormai celeberrimi Mo Dao Zu Shi, Tian Guan Ci Fu e Scum Villain’s Self-Saving System). Così come ingenuo, dati alla mano, sarebbe mancare di affiancare al suo nome quelli, non meno altisonanti, di diverse sue colleghe: Meatbun Doesn’t Eat Meat (autrice del monumentale The Husky and His White Cat Shizun), in primis, ma anche le pioniere Feng Nong e Chai Jidan… e lei, ovviamente, l’elefante nella stanza di queste prime righe di articolo, Priest – mente artefice dei labirintici intrecci di Zhen Hun, Tian Ya Ke, Sha Po Lang, Liu Yao e Mo Du, per citare solo alcuni dei suoi lavori più famosi.
Sui lavori in questione, dunque, vorrei provare a spendere qualche riga… evitando, però, di dedicare a ciascuno di essi una recensione apposita, per non rischiare di rendermi eccessivamente ripetitiva; è mia convinzione, infatti, che i pregi e i difetti dello stile di scrittura e delle tecniche narrative di quest’autrice non varino da una novel all’altra, ma che, semmai, sia possibile assistere progressivamente a un affinarsi dei primi e a uno sbiadirsi dei secondi, a patto di esplorare la produzione letteraria in oggetto seguendo un percorso cronologico.

Proviamo a cimentarci con un’analisi generale, quindi…



“There are no unbroken eggs under an overturned nest.
Now the capital is already like this. Waiting in the palace is no different to going on the front line.”

(Sha Po Lang)



Priest e i suoi scritti

… a partire da quello che credo sia universalmente riconosciuto come uno dei principali e più apprezzabili marchi di fabbrica di Priest, ovvero l’abilità dimostrata nel ricreare e nell’avventurarsi con ammirevole disinvoltura lungo ambientazioni fra loro molto differenti, di volta in volta tratteggiate o condendo con guizzi di spiccata personalità sfondi generalmente poco sfruttati o ricorrendo a indovinatissime commistioni di scenari già esplorati in precedenza. Impossibile, in relazione al primo dei due casi, non fare riferimento alla dimensione di Sha Po Lang, contraddistinta da dinamiche sociopolitiche di stampo estremamente realistico (realismo teso a una ricostruzione il più cruda e coerente possibile della vicenda bellica via via delineata) su cui, tuttavia, va quasi surrealmente a innestarsi un apparato tecnologico di gusto steampunk che, almeno nel campo dei danmei, non trova eguali per potenza immaginifica; e semplicemente doveroso, andando invece al secondo, menzionare la peculiare cornice di Zhen Hun, vero e proprio ibrido (in virtù dell’alternarsi di segmenti ambientati in una Cina mitologica, popolata da divinità e cullata da una natura misteriosa, e altri aventi luogo in contesti urbani decisamente contemporanei) fra le più classiche atmosfere xuanhuan e i toni di un frizzante buddy-movie in salsa paranormale.
Vale la pena sottolineare, a questo punto, come l’altra, più riconoscibile “firma” di Priest sia legata a doppio filo proprio al suddetto talento nella tessitura di vari e variegati paesaggi: la scrupolosità, cioè, sfoggiata nell’elaborare intrecci avvincenti e – come risulta palese, a immersione nella lettura inoltrata, agli occhi di chiunque – pianificati in ogni infinitesimale dettaglio con una cura rara, il cui conto appare pienamente saldato solo nel momento in cui, giunti in prossimità dell’epilogo, si acquisisce istintivamente la consapevolezza di come nulla sia stato improvvisato lungo la strada e di come la versione ultimata dell’affresco non presenti alcuna sbavatura. Va da sé che una simile precisione applicata a trame tanto arzigogolate (fra cui, a mio avviso, proprio sotto il profilo della complessità, spiccano quelle a indirizzo giallo o noir… citofonare a Mo Du, nel caso, per ulteriori chiarimenti) possa vantare, come effetto collaterale, l’insorgere di fastidiose emicranie o della tentazione di chiudere tutto e lasciar perdere, in corrispondenza dei passaggi più lenti e/o tortuosi delle diverse storie. Come non consigliare, però, di accantonare ogni perplessità e andare avanti, confidando in una risoluzione finale degna di tal nome? Non c’è mai motivo di temere che Priest affidi i lettori a una conclusione nebulosa o che consegni loro una sceneggiatura piena di buchi.
Semmai, una conseguenza negativa (sebbene l’esistenza di un rapporto di causa-effetto, in questo caso, sia tutta da dimostrare) del puntare con tale decisione su intrecci così densi e così finemente cesellati è costituita, forse, da quello che identificherei come l’unico fianco lasciato scoperto dello stile di Priest: la pressoché totale subordinazione dei personaggi, dei loro sentimenti e delle loro scelte a esigenze narrative di ampio respiro, alla necessità di passare da un punto A ad un punto B senza perdite di tempo e senza ripensamenti… senza, insomma, concedere spazio a quelle parentesi o perfino a quelle disarmonie psicologiche tipiche dei titoli “characters driven”. Non c’è nulla, nessuno slancio emotivo e nessuna relazione interpersonale che, in qualche modo, non si faccia veicolo di un simbolo o di un significato volto ad arricchire la poetica, certo, ma astratta filosofia del racconto… non c’è nulla, nemmeno in figure innegabilmente riuscite e tridimensionali come quelle di Gu Yun o Shen Wei, di genuinamente e, proprio per questo, anche splendidamente fine a se stesso. I protagonisti di Sha Po Lang, Zhen Hun, Tian Ya Ke etc. sono dei preziosi e puntualissimi orologi d’antiquariato, di cui neppure lo scorrere del tempo riesce a usurare gli ingranaggi o a incrinare le lancette.
Che, poi, sia questo tipo di approccio allo studio e alla resa dei personaggi sia tutte le altre caratteristiche di cui si è detto rappresentino, beh, difetti insormontabili o pregi da valorizzare dipende, chiaramente, da ciò che ognuno di noi è solito ricercare o prediligere in un’opera di fantasia.




Priest nel paese dei drama (e non solo)

C’è stato chi, nel fare riferimento alla mole di c-drama e donghua tratti da danmei annunciati o già mandati in onda nel corso degli ultimi quattro anni circa, ha parlato di Priest come di “una delle scrittrici più fortunate al mondo”. Facilissimo capire il perché di questa definizione: non solo, infatti, praticamente tutti i titoli più celebri di quest’autrice hanno goduto o si suppone stiano per godere di una qualche trasposizione, ma, fra le trasposizioni in questione, quelle che hanno già visto la luce hanno anche riscosso un successo quasi DISUMANO.
Guardiamo, ad esempio, al drama ispirato a Zhen Hun (Guardian), oggigiorno considerato il capostipite di quella fulminea ma più che incisiva ondata di live actions “in cui la storia d’amore omosessuale presente nell’opera originaria risulta significativamente censurata, sì, ma comunque evidente anche agli occhi dello spettatore più distratto/omofobico”; o, beh, ovviamente a quello basato su Tian Ya Ke (Word of Honor), divenuto pietra di molti scandali ma anche, con una rapidità impressionante, pietra miliare del genere; o, perché no, alla spasmodica e continuamente frustrata attesa degli adattamenti di Sha Po Lang (più che promettente, almeno a giudicare dalle foto di scena lasciate trapelare finora) e Shan He Biao Li. E potremmo continuare, ancora, con l’entusiasmo collettivo che ha accolto l’efficacissimo trailer del donghua di Mo Du, nonché con la diffusa tenerezza inevitabilmente suscitata da quello di Liu Yao.
Quale potrebbe essere, dunque, il segreto della popolarità così rapidamente ottenuta dai prodotti già sbocciati a partire dagli scritti di Priest, a dispetto della mole di tagli e modifiche che, per forza di cose, ciascuno di essi porta con sé? In fondo, al di là della totale soppressione della componente erotica (piuttosto timida, tutto sommato, anche nel materiale di partenza) a favore di un assai più sfumato e astratto romanticismo, talvolta è la stessa logica interna al racconto a uscirne sensibilmente compromessa: basti guardare, per citare il caso più celebre, alla disastrosa valanga di forzature e contraddizioni causata, in Guardian, dalla necessità di spiegare in chiave pseudo-scientifica tutti gli eventi di matrice sovrannaturale, traducendo le creature mitologiche in alieni e il ciclo di reincarnazione in viaggi temporali. Ebbene, a parer mio la ragione della disponibilità del fandom a passar sopra a simili amenità va ricercata, in particolar modo, nelle quasi sempre azzeccatissime scelte di casting e nella capacità degli addetti ai lavori di bilanciare la grossolanità di certe espressioni estetiche, dovute principalmente ai fondi insufficienti, con la cura invece profusa nella resa di altre… fra cui, per quanto mi riguarda, andrebbero annoverati la colonna sonora proprio di Guardian (come non lasciarsi coinvolgere dal drammatico, epico brano “We Won’t Be Falling”?) o il comparto costumi di Word of Honor (non so voi, ma io la veste blu di Wen KeXing la userei perfino per andare all’università—); nonché – e andiamo al punto – nella prodigiosa chimica scattata fra varie coppie d’interpreti, spesso lasciate sole a gestire l’onere e l’onore di traghettare sullo schermo, tramite sorrisi a stento camuffati o sguardi di malavoglia rivoltisi altrove, amori che la stessa sceneggiatura non può che limitarsi a sussurrare.
Quel che è certo, comunque, è che, in attesa di lasciarci alle spalle un 2022 già annunciato come anno all’insegna del Patriottismo, avremo modo di lasciar crescere a dismisura le nostre aspettative…




… e qui si conclude, direi, questo mio personalissimo e nient’affatto imparziale excursus sull’operato di Priest e sulla galassia di trasposizioni, enorme, pian piano sortagli attorno… per il momento, almeno. Mi riservo, infatti, di rimettervi mano, se e quando dovessi riuscire ad ampliare la mia conoscenza di quest’autrice (o se la mia opinione al riguardo dovesse cambiare!), la quale sembra davvero non trovarsi mai a corto di storie da raccontare, di mondi da edificare e d’immagini da imprimere nella mente di ogni lettore.
Fortunatamente per noi.




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