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L’Opera di Pechino tra (alcuni) film, drama e danmei


Articolo, questo, leggermente… anomalo?, sia dal punto di vista tematico sia da quello strutturale, rispetto alla “norma” del blog.
Si tratta, infatti, di una sorta di mosaico composto da alcune mini-recensioni precedentemente scritte per la mia Top 10 dei film asiatici a tinte LGBTQ+ e per la pagina Facebook che ho associato a quest’angolino di web (e a cui invito tutti, se interessati, a iscriversi!), corredate da circa 1/3 di contenuto inedito, con un motivo comune a fare da collante: l’attenzione, cioè, posta sugli accenti romantici di storie interamente o parzialmente ambientate nel mondo dell’Opera di Pechino. Complice quella che tendo a considerare una mia deformazione professionale data dall’essere stata cresciuta a pane e Glass no Kamen, infatti, ho sempre trovato irresistibilmente affascinanti i ritratti di attori legati l’uno all’altro dai ruoli rivestiti sulla scena, di uomini completamente estranei all’arte teatrale ritrovatisi tutt’a un tratto folgorati dal carisma di un interprete in particolare, di passioni che da un’opera si trasferiscono a chi quest’ultima s’impegna a portarla in vita… e via discorrendo.
Ciò che intendo tessere qui, perciò, è un piccolo omaggio ad alcuni dei titoli (nello specifico: un film, un drama e un danmei) che, integrando i tropi di cui sopra al clima della Cina del primo ‘900, sono riusciti, in tempi più o meno recenti, ad avvincermi completamente.

Si alzi il sipario, quindi, e si cominci con…




FAREWELL MY CONCUBINE
(1993; tratto dall’omonimo romanzo di Lilian Lee)


È il 1924. Una prostituta, a causa di crescenti ristrettezze economiche, decide di affidare il proprio figlio alla compagnia teatrale del Maestro Guan, presso la quale il piccolo Douzi – dotato d’una bellezza che sembra destinarlo ad una brillante carriera come interprete di dàn (i ruoli femminili) – avrà modo di essere formato come attore, sebbene al prezzo di ripetuti abusi fisici e psicologici. Lungo un cammino parallelo al suo si avvia, negli stessi anni, l’altrettanto giovane Shi Tou, al quale Douzi finirà per far dono di tutto l’amore di cui è capace, una volta salito sul palco nei panni della concubina Yu Ji… e una volta tornato dietro le quinte, anche, a struggersi per la gentile indifferenza dell’amico.

Cromatico, sì, ma anche e soprattutto tematico è il contrasto fra, da un lato, il grigiore dell’infanzia di Douzi, brulicante di ragazzini impauriti e imprudenti, di corpi venduti per soldi e di vicoli fuligginosi e, dall’altro, l’arcobaleno sgargiante lungo cui avanza l’ormai adulto e famoso “Cheng Dieyi”, animato da teatri affollati, da regali di ammiratori facoltosi… e, tuttavia, di nuovo, inevitabilmente, dagli stessi corpi svenduti di prima. A legare fra loro i due spettri di colori è, però, soprattutto l’Arte e l’amore per essa, a sua volta causa o riflesso di quello per il compagno: amori, questi, che all’intera vicenda non si limitano a fare da collante, ma accorrono anche ad apporre un sigillo, concludendo il proprio percorso nelle stesse strade polverose che hanno dato loro origine (e poco importa che, stavolta, il succitato grigiore richiami le uniformi dei rivoluzionari e non gli stracci indossati da trovatelli rachitici). Il lusso, le fantasie romantiche e perfino l’identità femminile di Douzi non appartengono che a Dieyi, cioè all’illusione creata da un palcoscenico che può solo cercare di ritardare l’irrompere delle invidie, delle gelosie, della guerra e di tutto ciò che è appannaggio della vita reale.
Capolavoro, a mio avviso, che mi sento però di consigliare solo a chi sia veramente curioso d’ammirare le sagome e i suoni di una Cina ormai lontana, seppur non del tutto perduta, oltre alle contraddizioni di una personalità lacerata che, a tratti (e non lo si legga come un difetto!), appare quasi più simbolo che protagonista della cultura da cui prende vita.



KILLER AND HEALER
(2021; basato su un soggetto originale, tradotto in novel solo successivamente alla messa in onda della serie)


Le indagini relative a un traffico di oppio sotterraneo, nella Cina degli anni ’30, portano le sorti del medico Yu Zhi, uomo estremamente mite e devoto alla propria causa, a intersecarsi con quelle di Yue Lou, un poliziotto dalla testa calda non esattamente restìo al ricorso, allo scopo di portare a casa il risultato, a metodi poco ortodossi. Nonostante le contingenze impongano loro una stretta collaborazione, però, ai due servirà diverso tempo per imparare a fidarsi realmente l’uno dell’altro e per incamminarsi insieme lungo un percorso che, nel mezzo di complotti orditi ai più alti livelli della sfera sociale, dovrebbe riuscire a guarire Yue Lou dal disturbo bipolare da cui egli è afflitto.
Sullo sfondo, le bugie e le ombre di chi, dei complotti di cui sopra, è, in segreto, l’artefice: Zhan Jun Bai, mafioso “di razza” ma anche – a sorpresa! – grande amico di Yue Lou… nonché, altrettanto incredibilmente, sincero estimatore di un attore dell’Opera di Pechino, ovvero quel Yu Tang Chun dal passato misterioso che, pur senza rinunciare ad alimentare costantemente un rancore che lo macera dall’interno, finisce per intravedere nell’affetto offertogli dal nuovo ammiratore una finestra aperta su un’allettante felicità…

Il rapporto di amore/odio, scandito da premure e torture e incorniciato dagli orpelli tragici più adatti al contesto storico prescelto, che unisce il percorso criminoso di Zhan Jun Bai a quello volto alla vendetta di Yu Tang Chun non costituisce – va precisato subito – che una sottotrama marginale entro il grande schema politico messo in piedi da Killer and Healer. E, tuttavia, pur tenendo conto della marginalità in questione, trovo che esso rappresenti comunque un motivo più che sufficiente per convincersi a recuperare l’intera serie, anche nel caso in cui ogni altro intreccio proposto dalla stessa ispirasse solamente noia e confusione (eventualità, questa, nient’affatto improbabile—).
Sarà, forse, perché quello del cultore di arti teatrali invaghitosi della bellezza e del talento di un attore notato sul palcoscenico è sì uno dei clichés più vecchi del mondo, ma anche uno dei meglio invecchiati, ancora più che capace d’ammantare di un romanticismo particolarmente poetico ogni storia con cui viene a contatto. O sarà, non so, perché l’innamoramento fra due persone ignare di essere già state poste l’una contro l’altra da un passato in comune (che, crudeltà della sorte, tarda moltissimo a emergere con chiarezza) riesce sempre, puntualmente, a bucare lo schermo con una tensione sconosciuta a qualsiasi slice of life. O, beh, magari sarà perché, semplicemente, la sottoscritta tende a diventare debole di fronte alle scene in cui un assassino trasmette la propria esperienza in materia di armi al compagno, inconsapevole del fatto che quest’ultimo, prima o poi, proverà a sfruttarla per ucciderlo.
Sarà, probabilmente, per tutte queste ragioni messe assieme, perché il legame fra Zhan Jun Bai e Yu Tang Chun si dimostra effettivamente capace di assumere tante forme diverse… perfino troppe, considerato che a nessuna di esse viene concesso il tempo necessario a esprimere un potenziale la cui immensità, purtroppo, non riesce che a balenare fiocamente fra gli intrighi di natura poliziesca.



WINTER BEGONIA
(2010; adattato, nel 2020, in un drama omonimo)


Cheng Fengtai, un ricco uomo d’affari tanto temuto per la sua rete di conoscenze influenti quanto apprezzato per il suo (gelido) charme, si ritrova tutt’a un tratto a fare i conti con l’attrazione in lui scaturita per Shang Xirui, un famosissimo attore dell’Opera di Pechino… noto, a sua volta, sia l’eccezionale talento di cui è in possesso sia per il temperamento geloso e iracondo di cui non si fa scrupolo a rendere oggetto i suoi numerosi, potenti amanti.
Sopra questa sofisticata, decadente, socialmente “inaccettabile” storia d’amore iniziano presto a soffiare, tuttavia, i venti della guerra imminente…

Un rapporto, quello che lega Cheng Fengtai e Shang Xirui, destinato a prendere forma in spazi che, per un ironico scherzo del fato, si scopriranno costituire un “riflesso” pressoché perfetto della sua natura più profonda: camerini bui, bordelli infestati dal fumo emesso dai sigari degli avventori, bische più o meno clandestine riescono, infatti, ad allinearsi senza alcuna fatica agli squilibri contraddistinguenti la relazione fra i due personaggi – ovvero fra un uomo le cui sfumature caratteriali principali appaiono essere quelle della noia e dell’indifferenza, da un lato, e un ragazzo molto più giovane il cui fare eternamente infantile, possessivo e capriccioso non sembra capace di tradursi in altro che nella tendenza a trasformare in cenere ogni persona incontrata (e amata) lungo il cammino. Viene quasi da domandarsi, a un certo punto, se a mettere a rischio tale legame siano davvero le malelingue diffusesi nell’ambiente teatrale, le insidie di parenti arrivisti e lo spauracchio rappresentato dal conflitto bellico alle porte… e non, piuttosto, gli egoismi di entrambi i suoi protagonisti, a tratti apparentemente più innamorati di se stessi e di ciò che l’altro è disposto a offrir loro… che, beh, del rispettivo compagno.
A tratti, certo.
A tratti diversi, invece, l’amore fra i due sembra proporsi, al netto di ogni contrasto e di tutto il veleno assaporato, come l’ultima scintilla di genuina vitalità, di sincero trasporto in un mondo crudele e meraviglioso a un passo dalla scomparsa. Una delle poche cose, forse, che di esso, in futuro, varrà la pena ricordarsi.




… e qui si conclude, direi, questo breve – e, spero, non troppo disorganizzato – excursus sul tema, che spero comunque d’aver modo d’arricchire, in futuro, con osservazioni sparse su altre opere a esso riconducibili.
Cosa potrei fare di meglio, dunque, adesso, del chiedere a chiunque sia attualmente “in ascolto” e possa fornirmi informazioni in merito, appunto, di consigliarmi qualcosa? Chi ha voglia di suggerirmi in che direzione guardare, per ulteriori approfondimenti al riguardo… ? 🙂

E, sì, lo so. Almeno un cenno alle meravigliose sequenze oniriche di East Palace, West Palace avrei potuto incastrarlo, da qualche parte, fra queste righe, ma…



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