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[Boys Love] Il fantasy e il k-pop di YUSA



“My poor lover.
I called him my enemy once.
The man I love.”

(Igen, To Take An Enemy’s Heart)



Generi: Drammatico, Fantasy, Storico
Titoli Trasposti in Animazione o in Live Action: //
Opere Pubblicate in Italia: //

9/10


Se dovessi scegliere un termine adatto a definire lo stile – di disegno, sì, ma narrativo soprattutto – dell’artista coreana YUSA, punterei sicuramente su uno inerente alla sfera dell’ingenuità. Nelle sue migliori e, insieme, peggiori accezioni.
Qualunque sia il genere letterario in cui la manhwaga si proponga, di volta in volta, di cimentarsi (e, a onor del vero, non ne ha sperimentati certo pochi! Nel corso di una carriera che l’ha traghettata dalle lande dei manhwa di stampo “classico” all’ormai popolarissimo universo del webtoon, ella non ha esitato a spalancare finestre aperte sul fantasy più puro, a condurci per mano lungo scenari storici dai contorni distopici, finanche a crogiolarsi nel contemporaneo mondo del K-Pop…), infatti, non accade praticamente mai che a un cambio di prospettiva, anche radicale, si accompagnino rimodulazioni o rinunce a quello che, di fatto, può dunque essere considerato un vero marchio di fabbrica di quest’autrice: il puntualissimo ricorso, cioè, a un romanticismo d’impronta disarmantemente magniloquente, a un fiorire di espedienti teatrali tanto soapoperistici nelle dinamiche quanto scontati negli esiti fausti, nonché, all’occorrenza, a sistemi magici privi di qualsivoglia elaborazione che vada oltre l’intuitivo “è così quando serve perché serve”. Tutte caratteristiche formalmente “negative”, queste, che, nell’uso fattone da Yusa, finiscono però con l’acquisire un sapore nostalgico capace di parlare, più che di difetti, di pregi e punti di forza. L’ingenuità con cui certi tropi da telenovela vengono portati in scena, difatti, è quella derivante non da una scrittura amatoriale, bensì dall’entusiasmo di chi ancora riesce a vivere gli stessi come se fosse la prima volta – come se essi avessero ancora qualcosa di genuino, in cui valesse la pena credere, da dire: e, come risultato, ecco che quei drammi sopra le righe, quei dialoghi roboanti e quei salti logici iniziano ad apparire, anche agli occhi del lettore, curiosamente convincenti, straripanti di spunti dall’interessante dipanarsi.
Un ruolo fondamentale lo svolge, in tal senso, anche il linguaggio profondamente autoironico adottato dall’artista. Lo stesso che, in pratica, la spinge a stemperare le struggentissime pene d’amore dell’Igen di To Take An Enemy’s Heart con il cronometrato intervento di siparietti da romcom atti a sottolineare, comicamente, gli atteggiamenti da adolescentello imbranato e un po’ arrogante con cui l’aristocratico porta avanti il corteggiamento nei confronti dello schiavo Kasan… e, va da sé, lo stesso che guarnisce la relazione fra Tasara e Nara di Where The Wind Stays con gli esilaranti momenti in cui il secondo dei due, inconsapevole della capacità dell’altro di leggergli nella mente, si lascia andare a osservazioni oscillanti fra lo stucchevole e il vietato ai minori. Eccessi da melò e leggerezza, culto del cliché e relativa dissacrazione umoristica: Yusa dimostra di saper dosare quasi alla perfezione ciascuno di questi elementi, così da creare composizioni che sappiano tanto di ammirazione per dei modi di fare manga tipici degli anni ‘80/’90 quanto, più imprevedibilmente, di un analitico distacco di gusto del tutto moderno.
Un discorso analogo, in fondo, potrebbe essere imbastito anche a proposito del comparto estetico che contraddistingue le opere di quest’autrice – la quale, fin dagli esordi, ha manifestato una spiazzante tendenza ad associare composizioni complesse, irradiate da colori brillanti e magnetici, a un’insistenza quasi “cronica” su errori, soprattutto in materia di proporzioni, oltremodo sgradevoli alla vista… stendiamo un velo, ad esempio, su quelle orrende caviglie più grandi della testa…

… e procediamo invece, come al solito, con qualche osservazione al volo sui tre più noti (nonché, a mio avviso, riusciti) titoli sfornati dalla nostra manhwaga… ovvero, in rigoroso ordine di pubblicazione…



TO TAKE AN ENEMY’S HEART
Igen, un giovane ma già potentissimo aristocratico, al fine di vendicare un orribile torto subito dalla sua famiglia, ordisce lo sterminio del nemico clan degli Azukun; egli comanda anche, però, che un unico membro di quest’ultimo venga lasciato in vita e condannato, “in cambio”, a sperimentare l’umiliazione d’essere costretto in schiavitù presso di lui. Il caso vuole che di tale sorte venga reso oggetto il mite, servizievole Kasan, totalmente all’oscuro di come sia stato proprio il suo nuovo, capriccioso e a tratti crudele, irresistibilmente affascinante padrone a privarlo, in origine, del calore domestico e della libertà. D’altro canto, Igen stesso, rimasto a sua volta colpito dal prigioniero, sembra non avere alcuna fretta di mettere in tavola la verità…
… ed è precisamente Igen a rappresentare il vero valore aggiunto di una trama che, se tessuta intorno a un protagonista diverso, avrebbe potuto sfociare in una semplicità tanto scarna da porsi al confine con la più assoluta banalità. Se ciò non accade è, appunto, solo grazie alla caratterizzazione di questo personaggio che, nell’ancorarsi a modi di fare di stampo apertamente infantile, riesce a comunicare al lettore, all’occorrenza, sia la tenerezza di un bambino divenuto adulto troppo presto, prima di superare per davvero i traumi accusati in gioventù, sia la spietatezza di un nobilotto egocentrico a cui nessuno ha mai insegnato come comprendere e rispettare il dolore altrui… sia, più in là, il buffissimo candore di un ragazzo che, nello scendere a patti con un inaspettato primo amore, non fa che prendere una clamorosa cantonata dietro l’altra. Ne deriva, per forza di cose, un ritratto vivace, dinamico, capace di offrire continui spunti di divertimento e commozione…
… ma senza nulla togliere alla riuscita della figura di Kasan, eh. Che tutto, veramente tutto si può dire, di essa, tranne che non sia stata in grado di sovvertire in pieno, grazie a un graduale e testardo processo di autoaffermazione, qualsivoglia iniziale giudizio di debolezza o dabbenaggine.


GOOD DAY TO GO CRAZY
Hosu, un ragazzo comune che tanto s’impegna, a lavoro, per permettere alla sorellina malata di condurre un’esistenza quanto più possibile serena, si ritrova all’improvviso ad avere a che fare, ben più intimamente del (im)previsto, con la star del K-Pop Leeseo. Tra convivenze forzate e madri dell’uno e dell’altro intenzionate a mettercela davvero tutta per evitare di rispettare le scelte e l’indipendenza dei figli, la situazione finisce presto per…
… precipitare, sì, ma anche per tradurre tutto il proprio potenziale da commedia natalizia (?) in un melodramma incorniciato da quelle stesse luci del palcoscenico che, beh, di separazioni forzate, fraintendimenti astrusi e parentele a sorpresa, da che mondo è mondo, si sono sempre proposte come lo scenario ideale. Perfino troppo, forse, dato che l’ammontare di coincidenze improbabili e scambi di battute lacrimevoli non appare bilanciato, stavolta, né da un sense of humor particolarmente efficace né – e questo è il difetto che trovo pesi di più – da un protagonista dalla personalità veramente interessante.
Fortuna che a salvare dall’oblio l’opera meno riuscita (a mio giudizio, s’intende!) di Yusa interviene… il coprotagonista, ecco. I suoi adorabili capelli rosa, soprattutto. Che trasmettono una tale sensazione di morbidezza da spingerti a concentrarti esclusivamente su di loro, ignorando tutto il debolissimo resto.


WHERE THE WIND STAYS
La famiglia reale è perseguitata, ormai da secoli, da una potentissima maledizione destinata, a ogni nuova generazione, a scegliere un membro della casata come proprio “tramite”, manifestandosi su di lui sotto forma di marchi sul corpo e di oscuri poteri psichici: per evitare che, crescendo, costui si faccia artefice della soppressione dell’intera linea di sangue, si ritiene non ci sia altra soluzione se non ucciderlo prima che le sue abilità sovrannaturali maturino a dismisura. Attualmente, a covare in sé il germe della male è il Principe Ereditario Tasara; Nara è, invece, il figlio di un cortigiano, dotato della singolare abilità di vedere gli spiriti, incaricato dal padre di sorvegliare il principe fino a quando non verrà il momento di eseguirne la condanna a morte. Imprevedibile, o forse no?, che l’ancora giovanissimo Tasara s’invaghisca del nuovo servitore e che quest’ultimo, dal canto suo, inizi a pensare con ritrosia all’ingrato compito affidatogli…
… specie se consideriamo che quanto appena riassunto non costituisce altro che la premessa di una storia il cui svolgimento appare contraddistinto da un continuo susseguirsi di disarticolazioni e riarticolazioni (considererei riduttivo definirle semplici “archi”), intervallate da salti temporali più o meno lunghi, il cui scopo sembra essere quello di sorprendere i lettori con sempre nuove prospettive da cui guardare alla vicenda rappresentata. Di Tasara e Nara si fa la conoscenza durante uno specifico stadio della vita dei due di cui, in seguito, non rimarrà che un riflesso sbiadito, tanti e tali saranno gli stravolgimenti a cui andranno incontro le loro esistenze e, di conseguenza, perfino i rispettivi punti di vista e le rispettive personalità; pare quasi, da un certo punto in poi, di assistere al dispiegarsi di più racconti, legati sì l’uno all’altro da un unico filo conduttore, ma diversissimi nei toni, nei ruoli via via ricopertivi dai personaggi, nelle finalità della narrazione.
Difficile, oltretutto, non individuare precisamente nell’impronta cangiante dell’intreccio una sorta di riflesso, se vogliamo, della mente frammentata del suo protagonista Tasara, costretto a lasciare che, nel proprio corpo, ben due anime distinte convivano, si scontrino e, in ultimo, ricerchino una sintesi che potrebbe però sapere più di dissoluzione che di rinascita…



… e qui concludo, mi sa.
Non con qualche “annotazione” dell’ultimo momento (credo, anzi, d’aver già scritto fin troppo), bensì, semmai, con l’auspicio che, prima o poi, almeno uno dei lavori di Yusa riesca a sbarcare anche qui in Italia. To Take An Enemy’s Heart, in fondo, ha già la sua bella edizione in lingua inglese… e non voglio credere che la crescente popolarità di un webtoon come Where The Wind Stays non suoni appetibile alle orecchie di nessuna, proprio nessuna casa editrice nostrana…

… *prova a fare un fischio*


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