“Here you are… stalker.”
(Kiyoi, drama, episodio 1×03)
Dobbiamo parlare di UTSUKUSHII KARE.
Dobbiamo parlarne perché è fin dal suo esordio, avvenuto nelle forme conferitele dalla light novel di Yuu Nagira del 2014 (forme poi “evolutesi”, tra il 2021 e il 2023, in un drama composto da due stagioni e, lo scorso Aprile, in un film destinato alla sala), che la storia d’amore fra Hira Kazunari e Kiyoi Sou ha preso a esercitare una crescente influenza sulle serie di stampo BL successivamente prodotte in Giappone, infine… abituatesi?, direi, a considerare il live action di UtsuKare lo standard da, perlomeno, imitare, nel caso in cui il superarlo si rivelasse troppo complesso. Questo per ottime ragioni, tra l’altro, relative soprattutto alla consapevolezza di come molto del successo riscosso dal titolo in questione abbia a che fare con la sua confezione tecnica, di qualità visibilmente più alta della media e riconosciuta come tale perfino da coloro che, per i motivi più disparati, alla cronaca della scombussolata quotidianità di un certo paperottolo non sono riusciti ad affezionarsi.
Ma, tant’è, io vi sono decisamente entrata in empatia, invece, e il mio intento, dopo aver tracciato un breve riassunto della trama dell’opera, sarebbe proprio quello di spiegarne il perché…
… al perché il diciassettenne Hira sia così spaventato dalla prospettiva di stringere un qualunque legame umano, al punto da rimuovere digitalmente la sagoma di ogni persona erroneamente inquadrata nelle foto che pure adora scattare ai paesaggi, al contrario, nessuno sembra interessarsi; i compagni di scuola si limitano a prenderlo in giro per la sua balbuzie e i genitori a provare a fornirgli nuovi stimoli senza, tuttavia, mostrarsi in grado di risalire all’origine del problema.
Tutto cambia, però, quando, nella classe di Hira, fa capolino Kiyoi, un ragazzo dalla bellezza abbagliante che, in qualche modo, almeno agli occhi del nostro “brutto anatroccolo”, appare circondato da un’aura completamente diversa da quella di chiunque altro – quasi le videocamere, le macchine fotografiche, gli sguardi stessi esistessero solo per catturare la sua immagine. È così che, fra i due ragazzi, s’instaura presto una dinamica assai simile a quella tipica del rapporto tra un devoto e la divinità venerata, tra un fan e l’idolo ammirato da lontano (non è certo un caso, oltretutto, che l’obiettivo dell’imperscrutabile Kiyoi, a cui le attenzioni di Hira paiono ispirare uno strano connubio fra repulsione e desiderio, sia proprio quello di sfondare nel mondo dello spettacolo)…
…
… questo, almeno, in un primo momento…
Una prosa sommessa, interamente a fuoco sulla vita interiore dei protagonisti e sullo scarto fra le loro distantissime prospettive da cui guardare al mondo (inteso come società nel suo complesso, come nido familiare, come modo di relazionarsi al prossimo), incornicia la storia di due ragazzi che, nel prendere coscienza del proprio ruolo di pesci fuor d’acqua rispetto a un ambiente impossibilitato a comprenderne i peculiari bisogni affettivi, scoprono di poter trovare ciò di cui sono affamati nei reciproci “difetti di fabbricazione”.
Per una persona come Hira, parecchi dei cui aspetti caratteriali appaiono intuitivamente riconducibili allo spettro autistico (la Nagira, pur non ricorrendo mai alla terminologia apposita, lascia che l’informazione emerga con grande chiarezza dalla narrazione stessa), non potrebbe esistere compagno migliore di un Kiyoi che, lungi dal considerare realmenterepellente la devozione ossessiva di cui si vede fatto oggetto, finisce per scorgere nelle bizzarrie dell’altro il potenziale per quella fedeltà assoluta, incrollabile, cieca se necessario, di cui è sempre stato alla ricerca. Il rapporto fra i due si evolve naturalmente, quindi, nel corso dei tre libri in cui l’opera è suddivisa… mostrando senza fretta, ma anche senza pretenziosi allungamenti di brodo, le difficoltà inevitabilmente costellanti il cammino verso la felicità – di coppia e individuale – di personalità così complesse e dissonanti; difficoltà, soprattutto comunicative, che si avvalgono spesso d’interessanti strumenti diegetici, quali il ritorno su sequenze già in precedenza illustrate al lettore, in modo da ripercorrerle secondo un’ottica capace d’interpretarle in maniera autonoma, d’isolarne dettagli prima ignorati.
Un insieme, questo, confezionato sia da un’intenerita ironia sia da una singolare percettività verso i cambiamenti di psicologie in viaggio dall’adolescenza all’età adulta, certosinamente resi su carta passo dopo passo, tappa dopo tappa…
Il compito di catturare l’attenzione di un pubblico già abituatosi a ricondurre le figure di Hira e Kiyoi alla matita gentile della Kasai o alle avvenenti sembianze di Riku Hagiwara e Yusei Yagi non era, di certo, dei più facili… e, con ogni probabilità, avrebbe schiacciato facilmente qualsiasi artista dalle spalle meno larghe di Megumi Kitano.
Quest’ultima, invece, facendo di una puntualissima fedeltà al romanzo della Nagira il proprio vessillo, è riuscita a insignire i vari personaggi via via delineati d’una voce identica nei pensieri espressi, ma deliziosamente originale nel timbro, a quella che i lettori navigati si aspettavano d’udire. Il suo Hira vanta tutta la dolcezza di un ragazzone la cui goffaggine, il cui eterno spaesamento rispetto al contesto ostile in cui è costretto a brancolare, potrebbe nasconderne la sensibilità solo a occhi molto distratti e poco innamorati; e il suo Kiyoi è di una bellezza e di un’eleganza estremamente taglienti, di quelle in grado di toglierti il respiro nel momento stesso in cui sottolineano quanto tu sia indegno anche soltanto d’ammirarle.
In definitiva: un applauso alla Magic Press, che si è decisa a portare (impacchettandola con cura!) questa gemma in Italia.
Fin dall’esordio su schermi che, in seguito al suo passaggio, non avrebbero più raccontato l’educazione sentimentale omoerotica allo stesso modo, la trasposizione indubbiamente più popolare dell’UtsuKare cartaceo sfoggia, fra i propri punti di forza, una scrittura robusta e coesa, abilissima nel ricalibrare – operando, nel mentre, numerosi arricchimenti e riattribuzioni di significato a scene che, nel lavoro di partenza, risultano contraddistinte da sfumature leggermente differenti – la trama tessuta dalla Nagira in forme capaci di valorizzarne, anziché d’annacquarne, tutta l’autenticità emotiva, tutte le controversie atte a farla spiccare con nettezza sulla massa di commedie anonime tanto in voga nel 2021. Il merito dell’eccellente risultato in questione, ovviamente, la sceneggiatrice Tsumi Fubota lo condivide sia con una colonna sonora grintosa e orecchiabilissima (di cui il brano di chiusura della prima stagione, Follow, costituisce forse la punta di diamante) sia, soprattutto, con l’oculata scelta di due attori protagonisti dimostratisi non solo perfettamente all’altezza, in quanto a talento, di ruoli molto meno lineari e banalmente “positivi” di quelli proposti alla maggior parte dei loro colleghi (a ben pochi dei quali capita di ritrovarsi a girare, col viso imbrattato di rosso, un pestaggio violento come quello messo in atto da Hira nella puntata 1×05), ma anche capaci di generare, in un adrenalinico crescendo di tensione, una serie di vistose scintille fluidamente sfocianti in baci e, in generale, in scene d’intimità fisica dosate con parsimonia, sì, ma ben più spontanee e sentite della media.
Proprio non si può dire, insomma, che il successo conseguito sia stato dovuto a un mero colpo di fortuna…
… o che il suo confluire nel miglior risultato mai ottenuto da una pellicola d’impronta BL, una volta approdato sul grande schermo, sia da imputarsi all’assenza di una concorrenza competitiva.
È, infatti, tutto merito di Riku Hagiwara (e molto meno della regista Mai Sakai, la quale, in questo frangente specifico, qualche scivolone grossolano l’ha compiuto), dei suoi cambi d’espressione così repentini ma, al contempo, così credibili fra gli sguardi di ghiaccio riservati all’antagonista Shitara e i sorrisi gentili rivolti a Kiyoi, se la figura di Hira giunge ai titoli di coda con, sulle spalle, un bagaglio di esperienze tanto prezioso e variegato – bagaglio riuscito a sbloccarlo dalla situazione di stallo psicologico entro cui lo spettatore aveva fatto la sua conoscenza, senza, però, alterarne minimamente l’indole più profonda: non riconosciamo più, qui, in lui, l’umile plebeo convinto che il Re abbia deciso di concedergli un briciolo di benevolenza giusto perché mosso a pietà, bensì un fidanzato consapevole d’occupare un posto di rilievo nel cuore del compagno. Ed è, va da sé, tutto merito dalla sua intesa con Yusei Yagi e della disponibilità di entrambi a… viverla?, la chimica in questione, fatta sbocciare con tanta disinvoltura (la stessa di cui si rivelano prive, al contrario, certe star alle quali la prospettiva d’interpretare un uomo queer va bene, sì, ma solo fintantoché questi si mantenga ad almeno un metro di distanza da qualsiasi altro individuo di genere maschile…), se scene come quella “dello specchio” siano già annoverabili fra le Leggende del genere.
Ciliegina sulla torta? Per quanto mi riguarda, la ritualità dei numerosi momenti in cui Hira bacia la mano di Kiyoi – adottando approcci sempre un po’ spiazzanti, col risultato che, alla vigilia della conclusione, quella che era nata come la reverenza di un fedele si è trasformata, senza colpo ferire, nel romantico gesto di un principe…
…
… e qui mi fermo, con la speranza d’aver condotto un excursus il più esauriente possibile sul microcosmo germogliato intorno al piccolo, timido, delicato capolavoro di Yuu Nagisa, nato in sordina come l’amore di Hira e giunto a brillare come la stella di Kiyoi…
…
… e, ecco, perdonatemi il cedimento alla stucchevolezza… sto scrivendo queste righe a poche ore dalla visione del Utsukushii Kare〜Eternal〜 e mi sento ancora un po’ debole…